Urbino, Albergo Italia

L’Ateneo ricorda Carlo Bo nell’anno ventennale della sua scomparsa.

Vogliamo tentare un bilancio dei suoi rapporti con la città di Urbino?

Per capire Urbino non basta una vita. Certamente quando sono arrivato per la prima volta avevo un’idea molto vaga e quindi è stato nello stesso tempo una sorpresa anche un certo momento di stupefazione, perché venivo da un altro mondo, da un altro modo di vivere e Urbino era ancora una città agricola.

Poi c’è stato un salto; mi ci sono voluti molti anni per entrare nello spirito della città, della gente. E soprattutto nell’ordine della storia.

Mi sono trovato per caso a rimanerci a lungo, contro quella che era la regola comune, normale dei professori che venivano in Urbino. Ai miei tempi ci si stava un anno o due, poi si andava via. E invece, contro ogni abitudine, ho finito per passarci tutta la vita.

Anche adesso, dopo tanti anni – perché sono arrivato nell’ottobre del ’38 – non ho ben chiaro in mente quello che ha significato nei secoli questa città, questa isola, questo mondo separato.

Eppure qui batte il cuore dell’Italia, c’è qualcosa che miracolosamente è stato realizzato nei secoli passati e che adesso è riassumibile, è simboleggiato dal Palazzo Ducale. Intorno a questa idea, che è un’idea d’arte, un’idea di bellezza, di poesia (anche se in parte è nata come un sistema di difesa, una città d’arme), attorno a questo nucleo poi si è sviluppato anonimamente – con l’intervento di tante persone, di tante generazioni che si sono susseguite – qualche cosa che continua ad appartenere sempre al regno dell’arte, della poesia, dell’intelligenza, in una parola sola dell’anima.

Nello stesso tempo c’è questo senso d’isolamento che dura, questo modo di poter vedere da un piccolo osservatorio come Urbino quello che è avvenuto in Italia nel secolo che sta per finire. Uno dei colleghi più acuti che ho avuto in tanti anni di vita universitaria, il professor Fabio Cusin, diceva che Urbino rappresenta l’Italia, che avrebbe dovuto diventarne la capitale. Ma questa era la visione di uno storico, di uno che conosceva molto bene quelli che sono i caratteri degli italiani, la lunga soluzione della nostra storia. Quindi è soltanto un’idea, ma in questo c’è qualche cosa di vero. Stando appunto così separati, così distanti, così arroccati su un colle, uno che ci viva, che ci sia nato, che abbia passato qui la sua vita e che sia stato dotato di capacità poetiche – per esempio Volponi – ecco che un individuo di questa specie è in grado di andare al di là della storia e di vedere quello che si sarebbe potuto fare, quello che si è fatto, quello che si è perduto nei secoli e quello che, nonostante tutto, permane, resiste, respira.

Quindi è stata una seconda educazione, così diversa dalla prima, per me che venivo da un mondo più organizzato, più moderno. E anche oggi si assiste a questo paradosso, questo contrasto tra antico e nuovo; ma tutto viene poi risolto non solo nei tesori artistici della città, ma nella bellezza del paesaggio, delle colline, di questa luce stupenda che c’è nei giorni più limpidi, più chiari.

Quindi c’è anche una parte di magia che non deve essere dimenticata quando si fa il calcolo, il bilancio di una vita passata in Urbino.

Cosa significa vivere in una “città dell’anima”?

È difficile rispondere. Penso sempre a un momento che ho vissuto una sera d’estate.

In questa lunga piazza deserta, c’erano due turisti che erano venuti su dal Duomo e sono arrivati davanti all’Università, erano un uomo e una donna. La donna ha detto “non c’è niente da vedere…”. E questo è una specie di chiave per capire, almeno per farci capire che c’è tutto da vedere, perché proprio la città frequentata a lungo, abitata a lungo, riserva delle soluzioni impensate e quindi genera dei sentimenti opposti di esaltazione e poi di abbandono.

È quindi difficile dire cosa bisogna fare. Io direi che l’unica cosa è di non tradire questa sua verità, che è una verità incomparabile. Bisogna essere prudenti e nello stesso tempo non accrescere questo stato di separazione, di isolamento, in modo da ristabilire una sorta di comunicazione tra Urbino e l’Italia.

Paradossalmente c’è infatti più rapporto fra Urbino e le civiltà straniere, le genti che vengono da fuori. Credo che si possa fare ancora un riferimento personale. Era venuto tanti anni fa un celebre filologo tedesco a fare un seminario e poi è soggiornato a lungo all’albergo “Italia”; quando si è congedato e mi ha salutato, ha detto “mi raccomando, l’albergo rimanga così com’è!”. Questo poteva sembrare veramente uno scherzo. Ma che cosa intendeva dire questo studioso di eccezione? Intendeva dire che anche in un piccolo albergo, posto però sotto il Palazzo Ducale, era possibile, anzi si doveva continuare a sentire quello che passa sopra queste case, quello che passa sopra Valbona…

Le immagini sono tante. 

Quali sono quelle che ha più care? 

In passato, quando andavo a mangiare appunto all’albergo “Italia”, c’era una finestra che dava sulla collina delle Vigne. Direi che ho passato lì i momenti di maggiore purezza lirica, di poesia vera. Per cui bastava guardare, basta guardare, anche adesso, nonostante tutto quello che è stato costruito, per fortuna lontano dal centro storico.

In fondo Urbino è un’invenzione poetica, della natura, del Creatore e di quello che in passato hanno saputo fare i grandi artisti che qui hanno lavorato, che hanno vissuto la città; anche gli umili, i costruttori di case che hanno sempre cercato di adattare le loro costruzioni al paesaggio senza rovinarlo, senza deturparlo. 

È questa l’eredità ideale che occorre trasmettere alle nuove generazioni? 

Probabilmente la necessità che hanno, a parte la difficoltà di trovare lavoro, è di capire quale grazia hanno avuto nascendo in un paese così bello. E proprio a questa grazia sono abituati: quello che a chi viene da fuori sembra un miracolo, invece per loro è un dono quotidiano, naturale. 

“Io accetto la vita di Urbino e ne soffro”, scriveva Volponi ne La strada per Roma… 

La sua storia è emblematica, perché nessuno più di lui era dotato delle forze per capire. Però è dovuto andare via, è dovuto scappare.

Comunque, alla fine, è tornato.

[ Questa narrazione è di fatto una conversazione di Carlo Bo con Gilberto Santini, che qui la interpreta, registrata a Milano il 15 febbraio 1997, presso la casa di Bo, in occasione della prima pubblicazione, per i cinquant’anni di rettorato, degli interventi dispersi o difficilmente reperibili dedicati dal Rettore alla città di Urbino, e quindi alla comunità che con questa edizione: Parole sulla città dell’anima, a cura dallo stesso Santini, l’Amministrazione Comunale ha voluto rappresentare. ]

Voce recitante: Gilberto Santini – Fotografia: Bob Krieger