Urbinate per sempre
L’Ateneo ricorda Carlo Bo nell’anno ventennale della sua scomparsa.
… era forte il mio sentimento di indegnità e di insufficienza. Lo stesso sentimento che ho provato al momento della nomina a senatore che poi per molti giorni ha inquietato e alterato la mia coscienza. Ma ora devo parlare soltanto di ciò che ho provato di orgoglio nel corso di questo atto di ringraziamento così solenne e pronunciato nel cuore della rosa di Urbino di fronte a tutto il consiglio comunale e ai miei colleghi dell’università e a tutta Urbino. In realtà a ringraziare devo essere soltanto e prima di tutto io per quello che ho imparato in questa città senza uguali nel corso di quasi mezzo secolo. Venuto per insegnare, ora a conti fatti, posso e debbo dire che ci sono rimasto per imparare. Una lezione che non è ancora terminata e di cui in questo momento sento tutta la verità e l’altezza. Non dunque dei meriti, anzi degli ‘altissimi meriti’ si deve discutere, ma della casa in cui questi meriti avrebbero trovato la loro piena soluzione. Penso che nella formula legata alla nomina sia da vedere non tanto la mia povera parte diretta ma piuttosto quella indiretta dello spettatore e dell’accompagnatore. Sono troppi quelli che avrebbero potuto sostenere meglio il manto che è stato posto sulle mie povere, fragili spalle di semplice osservatore epperò mi sembra giusto che nel riconoscimento trovino il primo posto gli scrittori, i poeti, i narratori che in oltre cinquant’anni di letteratura mi sono stati maestri e compagni.
Non un merito, un privilegio se già negli anni del liceo la fortuna mi aveva fatto conoscere Camillo Sbarbaro in veste di professore di greco e poco dopo mi aveva introdotto a Firenze nella famiglia del “Frontespizio”. Sarebbe un catalogo enorme, un catalogo illustre dove non mancherebbe nessuno degli scrittori che hanno illustrato questo secolo e che per conto mio ho cercato di sfogliare con amore, spesso con passione, sempre con dedizione. Se mi dovessi finalmente riconoscere un merito, è questo: di essere stato di fronte ai Papini, ai Giuliotti, agli Ungaretti e ai Montale in una posizione di ammirazione e di attesa.
Ho creduto insomma nella letteratura e mi sembra di poter aggiungere che, nonostante tutto il mare corso, ci credo ancor oggi che sono vecchio e nel cuore non c’è più un angolo per le illusioni. Forse questo amore eccessivo e dominante per la letteratura era stato favorito dal tempo in cui si è aperta la mia giovinezza. Assente la ragione politica che era monopolio di una parte, dolente la stessa musica di una stagione che correva alla guerra, non restava altro che la letteratura e nella letteratura facevamo rientrare tutto, a cominciare dalla stessa nozione di vita.
È con questo bagaglio che sono arrivato un po’ per caso nella vostra, nostra città: un letterato troppo sicuro, troppo infatuato della sua piccola verità e del tutto inesperto, ignorante di ciò che deve essere la scuola e di come si debba trasmettere la cultura. Ecco dove ho ricominciato da capo e mi sono messo a studiare, non più sui libri ma a contatto di una realtà povera, fatta di cose semplici ma molto più vere di quelle che avevo fantasticato nella mia egoistica e personale biblioteca. Sono due parti della vita che si collegano fra di loro senza scompensi né differenze ma naturalmente epperò Urbino è diventata per me un filtro della coscienza, lo strumento per capire che le parole hanno un senso, hanno valore se corrispondono alle cose. Furono gli anni della guerra, dell’occupazione e del ritorno alla libertà attraverso la strada dei dolori e del sangue: un’esperienza che ha segnato gli uomini della mia generazione, quasi fosse un nuovo punto di partenza, un ricominciamento. Della ragione letteraria era rimasto ben poco e anche allora fu un trauma, nel senso di avere sprecato la vita, buttato il tempo, sciupata la mappa delle passioni […].
Quante volte mi sono domandato che cosa sarebbe diventata la mia vita senza questa lunga scuola nel quotidiano, senza un confronto che mi dava conforto e sostegno e teneva indietro i veleni del mio scetticismo e il fondo della disperazione che avevo coltivato negli anni fiorentini, nell’accademia dell’ermetismo. Certo avrei fatto un’altra carriera, quella carriera che di solito un tempo facevano i professori di passaggio e consideravano quindi Urbino come una tappa. Il caso e le regole dell’accademia hanno fatto di me uno stanziale e sono rimasto urbinate à jamais. Senz’altro merito che quello di aver capito, ammirato e amato gli amici e i colleghi, di aver guardato anche qui – come avevo fatto con gli scrittori – uomini di straordinaria intelligenza, a volte a dirittura geniali, maestri a pieno titolo, diciamo la parola, inventori e non puri fruitori o sfruttatori di cultura. È al loro fianco che ho visto anno per anno crescere questa famiglia all’inizio così piccola e familiare: se non ci fossero stati, neppure un quarto dei meriti che oggi mi sono riconosciuti con un largo margine di benevolenza avrebbe un senso. Là dove non c’era nulla sono cresciuti istituti che ci sarebbero stati invidiati nel mondo, nuove facoltà, nuovi corsi di laurea e una corona di scuole che hanno posto Urbino alla testa degli innovatori e dei propugnatori di nuove discipline. Lo ripeto, per quanto lo concedevano i mezzi e gli strumenti a disposizione non ho mai detto di no, fedele alla regola del vedere prima di giudicare, dello sperimentare prima del rifiutare o condannare.
Ma non ho imparato solo dentro le mura dell’università, ho imparato molte cose nel contatto quotidiano con le persone, stando al caffè o al circolo e, fino a quando è stato possibile, in compagnia degli studenti. Il ’68 è stato da questo punto di vista il rifiuto non del padre che non ero, ma del fratello e aggiungo che anche nel dolore della delusione e del rammarico ho finito per imparare un’altra cosa e cioè che non bisogna mai essere sicuri di aver fatto tutto il possibile perché di colpo la realtà può buttare all’aria il nostro teatro e lasciarci con le piaghe della sconfitta non prevista.
Non potrei finire senza ricordare che tutto questo è accaduto perché Urbino è una città universitaria e di questo hanno sempre avuto coscienza gli amministratori che hanno favorito le nostre iniziative e le nostre speranze. È, dunque, al senso dell’unità che si ispira questo mio sincero ringraziamento e il voto che chi verrà saprà moltiplicare e vivificare queste ragioni sì da rendere Urbino una delle poche autentiche capitali dello spirito. Che è poi quello che conta, la fede nella propria opera, quella fede che ho visto accesa più negli altri che in me stesso. […]
Una scuola è, è viva, ha ragione di essere se esiste questa continuità di passioni e di sentimenti, se non viene soffocato il dato dell’amore. Non serve farne una casa senza questa rete di sangue e di sentimenti.
Spero di aver dimostrato per pochi esempi che gli ‘altissimi meriti’ non sono miei ma il simbolo di un lavoro comune e da parte degli scrittori e da parte dei professori e dei maestri di università. Non credo di sbagliare che alla scelta così generosa del Presidente della Repubblica abbia presieduto anche questo elemento del ricordo di Urbino e delle sue visite. Per il resto so benissimo di non aver nulla da pretendere, nessuna voce da iscrivere in capitolo. Mi ha sempre colpito la frase di uno scrittore tedesco che con qualche sufficienza trasferivo dentro di me: ho letto la mia vita. Con un’accezione particolare nel senso che per me la lettura è stata doppia, prima nei libri […] e poi nel cuore della gente, nel continuo e sottile rumore delle cose.
Ho tentato di leggere, le volte che mi è stato concesso di farlo […] astenendomi dal piegare e violentare le parole degli altri e non negando a nessuno il diritto della libertà di espressione. Che è poi un carattere della nostra università così laica nel senso più alto del termine e cioè libera, critica dove il colloquio è stato quasi sempre considerato come primo e ultimo strumento di vita. Così nel chiudere questo ringraziamento […] a tutta Urbino sboccia improvviso un profondo appello alla fedeltà in uno dei simboli più intatti della nostra civiltà, alla luce della poesia che da cinque secoli si manifesta nel suo nome perfetto e inimitabile.
[Discorso pronunciato da Carlo Bo il 10 settembre 1984, nella Sala del Trono del Palazzo ducale di Urbino, in occasione dell’omaggio rivoltogli dall’Amministrazione Comunale e dalle autorità convenute per celebrare la sua nomina a Senatore a vita, conferitagli nel luglio dello stesso anno dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini, quindi pubblicato nella cartella Carlo Bo e Urbino. Tre serigrafie originali di Giorgio Bompadre, Renato Bruscaglia, Elio Marchegiani. Testi di Carlo Bo e Mario Ramous, Accademia di Belle Arti di Urbino, Urbino 1984, qui riproposto nel giorno del compleanno (25 gennaio 1911), e sulla soglia del ventennale dalla scomparsa].
Voce recitante: Silvio Castiglioni – Fotografia: Bob Krieger