Quando Federico da Montefeltro cercò di sedurre le Muse
L’Ateneo ricorda Carlo Bo nell’anno ventennale della sua scomparsa.
Urbino ha un cielo particolare, lo avverte subito chi sta per salire al monte e entrare in città. Al cielo corrisponde l’aria, l’anima stessa del paese. Per essere più precisi, ci sono diverse vie d’accesso: la storica che partendo da Urbania a un certo punto ci mette di fronte al miracolo del Palazzo Ducale, una ancora più antica, era detta Ducale, che corre sulle colline e infine quella che viene da Pesaro e oggi è la più battuta e anche la più nota. Comunque, il punto di riferimento resta il Palazzo Ducale. Del resto, quando si dice Urbino, viene naturale pensare o a Raffaello o al Palazzo. Ecco perché il viaggiatore finisce per fare della sua visita una ragione storica, una verifica. Questo regime comporta con le soluzioni infelici e naturali, altre soluzioni intitolate, più che alla sorpresa, alla delusione: ma sono soluzioni provvisorie. Anche in questi casi, non cessa il bisogno del confronto e di una scoperta più segreta, meno prevedibile. Si tratta però sempre di viaggiatori illuminati, di visitatori preparati e è a questa famiglia che mi rivolgo.
Per prima cosa direi di fare una revisione dei luoghi. Paradossalmente Urbino conserverebbe la sua fisionomia anche se non fosse una dimora dell’arte, una delle vere capitali d’Italia. Bisogna girare la città senza un ordine prestabilito, cominciando per esempio dalla fortezza dell’Albornoz che sta su una delle due colline che formano la città, passando poi alla conoscenza delle mura: per rispettare la definizione locale, scendere dal Giro dei Debitori per arrivare ai piedi della chiesa dei Cappuccini, luogo quanto mai poetico e ben conosciuto da chi ha letto l’Aquilone del Pascoli. Se si svolta a sinistra si arriva sotto il palazzo e si ha modo di studiare e ammirare l’alta opera di ingegneria che ha permesso al duca Federigo di dare vita al suo miracolo. Con un giro più largo si può arrivare al cuore della città o se si sceglie di passare per la porta maggiore, Valbona, si arriva alla piazza, da dove in pochi minuti ci si ritrova all’appuntamento.
Si pensa e si dice che per visitare Urbino basti un giorno, ma non è vero, soltanto il Palazzo esige diverse ore di sosta. C’è dentro di tutto, intanto va esaminata la pianta, poi fissato l’ordine di questa che è stata detta giustamente una “città”. Quando è stato ideato il Palazzo doveva contenere tutto e in effetti al visitatore tocca tutta una serie di confronti, a partire dai fondi che sono stati riportati alla loro prima immagine, fino ai Torricini. Non era una casa fatta solo per rappresentanza, per una grande rappresentazione, per un teatro ufficiale, no, prima di tutto, doveva essere una casa di vita, dove tutti avevano diritto di entrare e di stare. Un progetto unico per quei tempi, e mai più ripetuto con la stessa forza d’immaginazione e d’invenzione. Il cortile, la grande scala che porta alla sala del Trono, le gallerie, le stanze, le dimore dei Duchi. Il visitatore non può restringere l’incontro al dato della meraviglia e della sorpresa, fatalmente è costretto a rivedere la storia di una famiglia, a rispondere al grande numero degli ospiti illustri che lo hanno arricchito e nobilitato.
Lo so, è stato un miracolo di pochi anni ma è rimasto come un simbolo, se non come il simbolo del Rinascimento e della vittoria dell’Umanesimo. Per il resto, il visitatore non ha che da sostare davanti alle opere d’arte che sono state più tardi raccolte nel nome del Signore che le aveva ordinate. Naturalmente il tempo ha portato il suo disordine, gran numero dei capolavori è stato depredato, la famosa Biblioteca è finita a Roma, ma tuttavia basta l’edificio, l’impianto stesso della costruzione per farci capire che ci troviamo di fronte a un monumento unico: meglio ancora di fronte all’ipotesi splendente della bellezza. Non per nulla Federigo da Montefeltro aveva cercato di fare della sua casa la dimora delle Muse: lo fece chiamando intorno a sé gli uomini e gli artisti migliori del suo tempo, lo fece cercando di identificare un sogno di bellezza con la potenza della ricchezza. Va detto che l’impresa non è stata vana, a distanza di secoli la voce del Palazzo Ducale è rimasta intatta e se Urbino ha potuto continuare a vivere è proprio perché nella Biblioteca ha voluto evocare la grande famiglia degli spiriti forti della Storia. Ecco perché non basta una giornata, al Palazzo è opportuno tornare molte volte, con la speranza di penetrarne i misteri e di riconoscerne le voci più nascoste.
Una volta rispettati questi limiti, si può riprendere la visita alla città che è in qualche modo l’appendice insostituibile del grande edificio. Ancora un modo per entrare nel passato, in quello che doveva essere il mondo urbinate di 500 anni fa. Quasi di fronte al Palazzo Ducale c’è l’oratorio di San Giovanni con gli affreschi dei fratelli Salimbeni e poi un numero alto di chiese, tutte segnate da un tratto comune di bellezza. Chiese piccole, a volte semplici oratori, a partire dalla più antica, dedicata a San Sergio, per arrivare a quelle della campagna che circonda Urbino.
Sono tanti itinerari che consentono al visitatore di ricostruire il senso della civiltà urbinate, una civiltà contadina che in questo secondo dopoguerra ha perduto le sue caratteristiche. C’è stata, come in altre città delle Marche, una sostituzione ma questa di Urbino ha in buona misura rispettato la prima ragione dell’Umanesimo. A quello delle campagne abbandonate è subentrato il mondo della scuola. Per esempio l’università ha cercato – grazie all’opera straordinaria dell’architetto Giancarlo De Carlo – di innestare su vecchi tronchi la vita nuova: si vada a visitare la sede del Magistero, la facoltà di Giurisprudenza, molti palazzi che ora sono occupati da istituti e soprattutto i collegi che animano tutta la parte nascosta dietro la chiesa dei Cappuccini. De Carlo ha inteso per primo che per salvare Urbino non si doveva tradire la sua vera fisionomia, al contrario bisognava saldare in un’unica vocazione il deposito illustre del passato e le aspirazioni della nuova cultura.
A noi sembra che il progetto sia riuscito, senza tradire quello che è lo spirito non solo della civiltà urbinate ma anche del paesaggio che ritroviamo fissato per l’eternità da Piero della Francesca. Non sarà questo l’ultimo dei temi del viaggio e della visita, anzi sarà uno dei momenti più esaltanti dell’incontro. Ciò che respirava nei libri della biblioteca saccheggiata e perduta del Duca è passato in un mondo per fortuna non ancora contaminato o sconciato dai poveri progetti della nostra nuova visione del mondo. Ecco perché uscendo dal Palazzo o dalla chiesa di San Giovanni, illuminata dai Salimbeni, c’è tutto un mondo da percorrere e da riconoscere: ci sono le Cesane, c’è la chiesa di San Bernardino con le tombe dei Duchi che stanno di fronte alla città e sembrano rispondere con la voce di ieri a quella dell’arte: una mirabile gara che è un po’ il riassunto delle nostre vicende terrene. Urbino è stata cantata da molti, in tempi non lontani da Cardarelli e in tempi più vicini a noi dallo scrittore Paolo Volponi che ha saputo penetrare fino in fondo nel cuore della sua città, di questa – ripetiamolo ancora una volta – città dell’anima.
[Stampato per la prima volta sul “Corriere della Sera” il 12 luglio 1989, nelle pagine di viaggio, sotto il titolo: Visitare Urbino, e quindi ripubblicato in Carlo Bo, Urbino, “il nuovo Leopardi/ grafica/8°”, il testo dedicato a Federico di Montefeltro è poi stato compreso nel volume: Carlo Bo, Parole sulla città dell’anima, a cura di Gilberto Santini, Urbino, Assessorato alla Cultura 1997, e quindi in Carlo Bo, Città dell’anima. Scritti sulle Marche e i marchigiani, a cura di Ursula Vogt, Ancona, Il lavoro editoriale 2000. Si tratta di una scrittura iconica, che qui cronologicamente si accompagnerà anche alla ricorrenza del compleanno del Duca Federico (7 giugno). Nell’occasione del ventennale il testo è affidato alla voce e al magistero di Lucia Ferrati, che da tempo si è fatta interprete delle parole del grande, magnifico Rettore. ]
Voce recitante: Lucia Ferrati – Fotografia: Bob Krieger