Il vento del Montefeltro
L’Ateneo ricorda Carlo Bo nell’anno ventennale della sua scomparsa.
Ci sono dei paesi di cui non si può mai dire che si è finito di conoscerne l’anima. Uno di questi è Urbino, anzi si sarebbe tentati di sostenere il primato e l’unicità della sua posizione. E questo per diverse ragioni, innanzitutto per la natura così imprevedibile nei suggerimenti e nelle invenzioni e poi per la sua storia, meglio per la vicenda umana che qui si è espressa una volta per tutte, rimanendo inattaccabile.
Ci vogliono anni di consuetudine, di convivenza per arrivare a cogliere qualche riflesso di questa sua luce antica e nello stesso tempo bastano a volte delle illuminazioni inattese e improvvise per strappare i veli del suo discorso ininterrotto. Tanti hanno cercato di svelarne il mistero e a volte con successo, penso al Pascoli, a Cardarelli, penso soprattutto a Volponi che, da quando ha cominciato a scrivere, non ha smesso di inseguire i fantasmi maggiori e minori eppure resta sempre un piccolo spazio per i più sprovveduti. Un po’ come dire che parla a tutti, a chi è preparato, a chi vi è stato disposto dalla nascita e al semplice passante in grado di sentire dentro il cuore la sottile vibrazione della sua parola.
Naturalmente rientrano nel numero dei vulnerati anche quelli che vengono in Urbino per ripercorrere la strada prima dell’arte ma qui si tratta di un altro giuoco che investe il mondo astratto dell’invenzione. Neppure questo però è del tutto diverso e distaccato perché quando lo storico dell’arte ha esaurito la gamma dei suoi problemi, ecco che si ritrova improvvisamente di fronte a un altro tipo di richiesta, nel senso che la perfetta fusione fra paesaggio e invenzione dell’uomo costituisce un mondo a sé e quasi sempre vince la poesia inalterabile di quel mondo. A volte percorrendo le piccole strade di Urbino si ha la sensazione non già che il tempo si sia fermato ma sia tuttora attivo, ancora suscettibile di altre convergenze e di altre convenzioni.
L’uomo si è inserito molto bene in quell’aria privilegiata, dentro il riposato groviglio di quelle colline dolci e inimitabili e non si è imposto, non ha esagerato, non ha prevaricato. In altri luoghi non si avverte il peso e il senso di questo equilibrio epperò si è portati a separare e alla fine ci si trova a dover scegliere. In Urbino gli uomini, anche quelli che vi si sono fermati, quelli che hanno costruito e corretto, non hanno pagato nessun tributo alla superbia. Perfino il Palazzo Ducale è l’espressione di una vocazione perfettamente saldata e soddisfatta, restando al proprio posto, anzi estraendo dall’incontro qualcosa che non apparteneva più in maniera esclusiva alla sua storia. È accaduto così che i tempi di decadenza, le stagioni d’ombra non hanno avuto alcuna efficacia, essendo diventati a loro volta conservatori e protettori di quella soluzione miracolosa.
D’Annunzio quando l’ha inclusa nel catalogo delle «città morte» ha commesso senza volerlo un piccolo abuso. Per un verso la sua era una scelta motivata dalle condizioni del suo tempo, era soggetta al mito del progresso e della rotazione delle civiltà ma non ha capito che proprio per la qualità e l’intensità della fusione fra paesaggio e arte Urbino aveva trovato il modo di salvarsi. In che modo è avvenuta quest’opera di salvezza? Intanto diciamo che non sono stati gli uomini, al contrario è stata la storia che di per sé avrebbe dovuto partecipare all’opera di distruzione e di riduzione. Mi spiego, la storia ha avuto una funzione attiva uscendo dalle mura di Urbino e accettando una sfida capitale: lasciare da parte ogni intervento e rimettere tutto nelle mani della poesia […].
Spetta a un sentimento che non è mai di soddisfazione, di appagamento, ma bensì di presenza, di costanza, di coscienza delle forme. Che è poi il regime che fatalmente applichiamo tutte le volte che si fa ritorno in Urbino. Voi avete una scelta molto ricca: potete salire dal mare, scendere dalla foresta delle Cesane, arrivarci da Urbania, dalla strada di Roma, il risultato non muta. Mutano i dati del problema ma quando arrivate al punto di fare un bilancio, ecco che vi trovate a fare i conti sempre e soltanto con la luce che investe e solleva la città. E anche qui vale il principio del rapporto fra uomo e paesaggio, nel senso che pur essendo tutte strade illustri, segnate da avvenimenti storici, hanno da tempo perso i loro nomi, sono diventati veri e propri sentieri di poesia. A conferma di questa impossibilità di mutare il suo volto, c’è un episodio nella sua storia che tante volte mi ricordava Fabio Cusin e cioè quando i soldati di Napoleone arrivarono in vista di Urbino, si fermarono e non andarono oltre. La storia con i suoi rumori e con il suo bottino di morte davanti a Urbino aveva gettato il guanto, preferendo lasciare a un diverso codice la spiegazione […].
Allora possiamo dire che Urbino resta inviolabile o offerta soltanto alle ragioni della poesia che non appartengono né alla memoria degli uomini né alla violenza delle cose. Chi se ne va, chi parte si porta dentro per sempre questo esempio unico di equilibrio spirituale. Potrà non avere le parole giuste, potrà addirittura non confessarlo neppure a se stesso, non conta: chi ha visto Urbino è stato folgorato e improvvisamente dovrà riconoscere che, pur non essendosene accorto, ha sentito quella fiamma, quel fuoco, insomma quel dono. Perché di dono si tratta e di un dono che il tempo non potrà più nascondere o corrompere. Evidentemente il processo non si arresta qui, il segreto, l’anima di Urbino se pure è dotata di questa capacità di fulminazione è lenta da conquistare, spesso – come è accaduto a persone che conosco bene – ci sono voluti molti anni per cominciare a decifrare i minimi segni del suo discorso. Ma anche per questi conquistatori in difficoltà e gravati da altri pesi della memoria c’è uno spazio lasciato alla folgorazione. Sono incontri non calcolati né prestabiliti ma vi basterà trovarvi sul declinare della sera di fianco al Palazzo Ducale, scendendo dall’Università, per sentirvi avvolti e soggiogati da un’aria intatta, ferma, quale solo la grande poesia è in grado di comunicarvi. Ma qui è qualcosa di più di una grazia della natura, è il miracolo di muoversi in un mondo di grandi e incalcolabili assoluzioni. Chi attraversa questi momenti privilegiati ha la sensazione di essere salvo, di non essere più raggiungibile dal male, dalla pena, dal tormento. Un po’ come se si vivesse nello stupore un tempo del giudizio universale.
Chi opera tale miracolo è la luce che si fonde nelle pietre e nello stesso tempo esalta la bellezza dei monumenti e alla fine domina il nostro animo e lo placa. Voi mi direte che senza uscire dalle Marche non mancano altre occasioni per assistere a fenomeni dello stesso genere ed è vero ma se abbiamo il tempo di approfondire il discorso anche voi finirete per ammettere che Urbino ha qualcosa in più delle altre città marchigiane. Solo qualcosa in più ma così inconfondibile che rende vano il giuoco stesso dei confronti. Né vale dire che è un simbolo, perché i simboli hanno saltato la vita, sono dei riferimenti mentre Urbino è viva, sia pure di un’altra vita che solo raramente viene quotata nelle nostre borse quotidiane. Di qui la difficoltà, anzi l’impossibilità di trovare gli strumenti adatti per la sua definizione. Questo le consente di sopravvivere con poco o niente, le permette di vivere dimenticata o dentro il meccanismo dell’ingiustizia, forte e cosciente com’è del suo essere.
Ecco che ci è caduta nel discorso e senza sforzo la parola buona: Urbino è. Proprio come Montale diceva della poesia: la poesia è. Urbino, e il suo modo di essere in fondo non è legato neppure alla storia, all’economia e paradossalmente alla cultura, di cui pure è un solido bastione. Vogliamo dire che alla fine tutto si spiega e si prosterna ai suoi piedi e gli uomini dentro le sue mura, più che attori, sono ospiti della bellezza. Questo potrebbe aiutarci a capire perché la sua gente sia disposta all’intelligenza naturale e, senza saperlo, tutte le volte che intende esprimersi nel senso giusto si appella a quel respiro d’anima che non ha altri esempi. Cosa che giustifica addirittura il forte spirito di campanile che accende molti dei suoi figli e annulla la sfiducia e lo scetticismo di chi assiste a quelle dichiarazioni d’amore. Ad aver torto siamo noi i dubbiosi e gli scettici, ad avere ragione sono i fedeli, quelli che hanno fatto della loro città il mondo.
Mondo, città: in questo caso sono parole insufficienti e fuorvianti, ripensando a quella formula enunciata sopra: Urbino è, dobbiamo riconoscere che ogni tentativo di accerchiamento e di conquista è vano. L’unica cosa che ci è dato di fare è avere coscienza di quegli attimi di miracolo che si vivono in Urbino, la cosa vera è rendere un minimo atto di coscienza a ciò che è avvenuto su quelle colline e continua ad accadere, al di là delle nostre ambizioni e delle nostre speculazioni. Ecco perché quella è la somma prima e ultima della nostra passione.
Voce recitante: Massimo Raffaeli – Fotografia: Bob Krieger