A casa del Duca [1982] — Prima parte
L’Ateneo ricorda Carlo Bo nell’anno ventennale della sua scomparsa.
Il 20 giugno 1982, in apertura delle celebrazioni per il Quinto Centenario della morte di Federico di Montefeltro, Carlo Bo tenne questo discorso nella Sala del Trono di Palazzo ducale, testo poi pubblicato ne “il nuovo Leopardi”, Urbino 1982, quindi in Carlo Bo, Parole sulla città dell’anima, a c. di G. Santini, Urbino, Assessorato alla Cultura, 1997. L’ampiezza del testo, e nondimeno la sua importanza, hanno consigliato di restituirlo qui in due parti, delle quali appunto la presente letta da Silvia Cuppini, storica dell’Arte Contemporanea, che ha conosciuto Bo come docente, e quindi come suo Rettore, ed anche come principale interlocutore negli anni in cui ha guidato l’Assessorato alla Cultura, guidando tra l’altro la pubblicazione del ’97, per celebrare il cinquantesimo anniversario di rettorato del Magnifico.
“Dux Federicus eram Montefeltrius: extat ymago/ haec mea vera quidem: sum modo cum superis”. [Ero il Duca Federico di Montefeltro. Rimane di me questa immagine veritiera. Ora sono con i celesti]. Questa affermazione al passato ritrova nel Palazzo ducale di Urbino una sorprendente riduzione o – se si preferisce – esaltazione al presente. Chi parla è Federico di Montefeltro, chi ci guida è lui e noi ci troviamo spiazzati nella parte degli spettatori o a dirittura di chi deve inventare per se stesso un’immagine.
Molti anni fa un collega della nostra Università e storico di sottile spirito critico, Fabio Cusin, a un certo punto della sua indagine sui Duchi si sentiva autorizzato a concludere: “l’opera politica di Federico Montefeltro, anche se ciò può apparire un paradosso, è il Palazzo ducale di Urbino”. Oggi tocca a noi così inferiori e per dottrina e per sagacia critica riprendere il discorso su Federico, ripartire dall’affermazione di Cusin e tentare di fare il cammino alla rovescia, vedere o rivedere attraverso quali idee e quali ambizioni Federico era arrivato a questo splendido fiore della poesia, cercare di capire da che cosa era animato epperò scoprire il nodo delle radici culturali e spirituali da cui è nata questa pianta che illustra la fragile figura dell’uomo. E questo non per tradire quella che è stata l’esperienza umana di Federico, al contrario per accompagnare le sue imprese con un’interpretazione che meglio si avvicini al quadro dell’altra storia, in rapporto alle motivazioni del suo genio e alle aspirazioni del suo spirito.
Chi è stato Federico, il Federico dell’arte militare, il diplomatico, il politico e infine il mecenate penso sia nella memoria di tutti, di chi ha avuto la fortuna di nascere in questo paese dell’anima italiana, di chi ci è venuto per lavoro, e naturalmente di quanti abbiano passato soltanto poche ore all’ombra o dentro il Palazzo. Più difficile invece ricordare il numero e la qualità dei segni, la forza del simbolo che la figura e le opere di Federico rappresentano. In tal senso esistono al proposito due possibilità di discorso: il primo ufficiale legato ai documenti, al monumento, alla traccia segnata nel libro della storia e il secondo per certi aspetti molto più vivo, di un’attualità eterna e che riguarda l’immagine maggiore di Federico con il disegno perfetto della sua esistenza. […] c’è un Federico che rientra nella storia di un secolo lontano e un Federico che può dire “sum” e non ha tempo, non è vincolato dalle ragioni del tempo che si trascina sempre dietro, fango, polvere, oblio e fatica. Ora se accettiamo la proposta di Cusin e ripartiamo da questo Palazzo troviamo subito un dato inoppugnabile, la vita di Federico ha obbedito a una visione della storia che non era tutta o in gran parte del suo tempo, vogliamo dire che del capitale che gli era stato trasmesso dalla famiglia e dalla storia del suo tempo ha saputo individuare le parti che andavano abbandonate e quelle che andavano riprese e vivificate. Naturalmente in questa opera di individuazione e di riscatto ebbe all’inizio un grande aiuto dall’insegnamento di Vittorino da Feltre, suo maestro a Mantova.
Vittorino gli aveva insegnato la regola degli equilibri, soprattutto l’uso dell’intelligenza, quel saper guardare le cose non soltanto dal punto di vista dell’opportunità e della convenienza. Su questa traccia si è mosso l’uomo d’armi, il politico e il diplomatico: tre immagini che in seguito ci porteranno a quella capitale del vero Federico.
Come militare Federico sa impostare in maniera originale, quella che doveva essere la sua professione, ciò che l’immediata eredità gli imponeva: combattere ma il minimo indispensabile in modo da passare dall’azione alla discussione, dalle armi al giuoco delle idee. Non basta, la guerra doveva essere la premessa – la più rapida possibile – della pace e la pace così diventava qualcosa di più di un riferimento formale o di un facile e comodo schermo della guerra ma lo scopo, la grande idea per l’avvento di una nuova età non più basata sul principio della violenza e della forza. A questa pace fatalmente avrebbero obbedito il politico e il diplomatico e ancora alla pace nell’azione sarebbe dovuta seguire la pace dell’intelligenza, della lettura, degli studi e dell’arte […].
Nella visione di Federico il Palazzo doveva essere una casa – bella quanto si vuole, preziosa quanto si vuole – ma casa aperta a tutti, dove tutti potessero entrare liberamente e parlare con il Duca. Ma c’è un’apparente contraddizione in quanto abbiamo appena detto: questa casa che è un miracolo dell’architettura, della geometria e della matematica è pur sempre opera di un architetto militare e in origine obbedisce al criterio della potenza e della forza. Ma si tratta di una contraddizione che non tiene e del resto l’evoluzione stessa dell’opera, il segno della trasformazione costante cui l’ha intitolato il Duca sta a dimostrarci che proprio nel corso della costruzione c’è stata tutta una serie di variazioni che corrispondono ai mutamenti filosofici del suo inventore.
La contrapposizione fra le due facciate – la prima condotta sulla ripetizione del “già fatto” e la seconda creata, inventata e imposta alle stesse leggi della geometria – è un’ulteriore prova del distacco dalla tradizione, della separazione che qui è stata fissata per sempre fra due modi di intendere la vita. Non più chiusura verso l’esterno, non più rifiuto della gente, non più il principio orgoglioso di una casta o di una famiglia privilegiata ma l’invito alla convivenza pacifica, al colloquio e alla partecipazione, per quanto fossero allora consentiti. Il Palazzo denuncia questo slittamento dal principio della forza e dell’autorità a quello della bellezza, dell’offerta di bellezza intesa, oltre che come piacere dell’occhio, come rammemorazione delle nostre ambizioni intellettuali e spirituali. […]
Se [Federico] fosse rimasto legato al passato non si sarebbe posto mete del genere, si sarebbe limitato a fare la guerra e a godere il frutto, la preda delle sue conquiste terrene. Le armi gli servono per dare da vivere alla sua gente, per costruire il suo Palazzo e per chiamare da tutte le parti del mondo gli artisti che avrebbero avuto il compito di sigillarlo con la loro arte. La ricchezza non la usa per arricchire i suoi depositi, è in tal senso un amministratore anomalo e che va contro le leggi dell’economia. Lo ha detto anche qui molto bene il Cusin:
“Federico rimane lassù, pago di ogni ambizione di conquista. Essere al piano il servo di chi pagava le sue prestazioni militari per poter far trionfare l’aquila del Montefeltro, lassù nel cielo urbinate, anzi molto più in alto, nella sua intima vita spirituale, dove nessun invidioso e nessuna manovra politica ostile avrebbe potuto snidarla: in quello studiolo riservato nel grande Palazzo, piccolo rifugio per il pensatore solitario […]”.
Ecco la conquista suprema, per la quale forse non occorreva essere principi”.
[Si tratta del discorso, particolarmente ampio, e che pertanto restituiremo in due parti successive, che Carlo Bo ha tenuto, nella Sala del Trono di Palazzo ducale, il 20 giugno 1982, in apertura delle Celebrazioni per il Quinto Centenario della morte di Federico di Montefeltro. La prima sede editoriale fu affidata in plaquette alle pagine de “il nuovo Leopardi”, la seconda sede, voluta da Silvia Cuppini, allora Assessore alla Cultura del Comune di Urbino, per festeggiare il Cinquantesimo anniversario di rettorato di Bo, affidata alle pagine di “Parole sulla città dell’anima”, a cura di G. Santini, nella collana “I luoghi e la storia”, Urbino 1997. ]
Voce recitante: Silvia Cuppini – Fotografia: Bob Krieger