A casa del Duca [1982] — Seconda parte

L’Ateneo ricorda Carlo Bo nell’anno ventennale della sua scomparsa.

Federico obbedisce a una sola vocazione, migliorare l’uomo per renderlo degno di arrivare a Dio, tutti gli altri studioli sono bagnati da un’altra luce, la dilettazione interiore essendo una cosa personale e interessata. Come lo studiolo, c’è anche qui la cappella: Federico è un uomo intero e anche quando si chiude nella più chiusa delle sue stanze a colloquio con i grandi del passato o accarezza i suoi codici non dimentica che dietro la porta c’è la sua gente che lo aspetta e a cui oltre il cibo offre questo specchio di perfezione.

[…] Ma se ora a distanza di cinquecento anni dalla sua morte quando intorno al suo Palazzo con le ombre è cresciuto l’oblio e il mondo, che allora non era stato del tutto scoperto epperò conservava una sua unità, è andato molte volte in frantumi e non si è più ricomposto in un unico sogno, se ora dovessimo cogliere il significato del suo nobile tentativo di estrarre dall’esistenza un simbolo non sapremmo trovare altro che il segno dell’equilibrio, almeno nei limiti che ci consentono i nostri mezzi provvisori e insufficienti. Equilibrio così bene confermato nella costruzione del Palazzo, in quell’amalgama fra terra e cielo, fra strada e visione, fra attenzione al concreto e al reale e quello spregio di fronte al difficile, all’impossibile e al non ancora tentato. Federico non ha risolto con i suoi architetti soltanto un arduo teorema ma ha spalancato sul vuoto il suo cuore ardimentoso, più coraggioso certo in pace di quanto non lo fosse stato in guerra (la guerra che alla fine avrebbe sigillato il suo orgoglioso e ostinato cammino).

[…] Nella sua mente di costruttore l’abitante del Palazzo avrebbe dovuto perseguire il sogno della perfezione interiore e, di conseguenza, essere pronto a ricevere chi fosse stato toccato dallo stesso spirito di grazia. C’era fra le sue ambizioni l’idea di questo particolare concilio fondato non più sulle cose della terra (dal momento che la stessa Chiesa aveva tradito per prima questa consegna) ma sulle cose dello spirito, tutto il Palazzo sembra sia costruito per questa funzione. La piazza, il cortile, la scala, il salone, è tutta una successione ben visibile e meglio sillabata di passaggi verso l’avvicinamento alla verità, dove il pubblico rispettava il privato e viceversa, dove potesse respirare la conversazione, il colloquio, la contemplazione delle opere d’arte. La famosa definizione della casa come città è fedele, riecheggia quelli che erano gli scopi del Duca ma non va letta in senso funzionale, di comodità, al contrario va intesa come tesoro, campionario delle cose indispensabili all’educazione dello spirito.

[…] Urbino vive nello stesso tempo nel ricordo di un tempo che ha segnato il cammino dell’Europa e soffre della rivincita delle cose. Le cose, lo spirito di potenza, tutto sembra congiurare contro questa città dell’anima poetica che rappresenta con Pienza, ma con maggiore forza proprio per la dimora di Federico, uno dei centri di quella che avrebbe potuto diventare l’Italia. Federico aveva indicata la strada, anzi l’aveva costruita e ne aveva raccomandato l’uso nella partecipazione e nella ricerca del bello. È spiegabile, è intuibile, anche se non è giusto, che le cose abbiano cercato la loro rivincita e l’ideale di Federico sia rimasto un fatto unico, irripetibile, qualcosa che non si sposa alla concezione del potere e della forza. Dal silenzio del Palazzo, dalle sue notti, dal sole che cade sulle sue invenzioni ci giunge – quando siamo in grado di penetrarne la voce – questa invocazione a non fare dell’esistenza un semplice passaggio tra le cose.

[…] Noi in tal modo non ricordiamo soltanto un piccolo miracolo consentito dai tempi e dalla ferma bellezza di questa terra, noi cerchiamo di illuminare un momento della nostra coscienza intera, quando le rare volte ci è permesso di sciogliere la dura e spietata legge dell’interesse personale nel fiume nascosto della partecipazione  e della comunione. Sono cose che Federico non ha detto ma ha fatto e fatto con questo spirito e sarebbe colpevole chi lo dimenticasse e questo per rispetto della storia e per amore della verità.

Questi sono alcuni, una parte minima, dei pensieri che chi ha qualche consuetudine con il mondo di Urbino è tentato di accogliere e sviluppare ripensando al suo Duca e alla sua storia pubblica e privata. Ma sono pensieri ammonitori, che non si esauriscono nel criterio del bilancio e della rivisitazione e qui tocchiamo il punto della validità e della permanenza del suo insegnamento umanistico. Se il fasto, la bellezza nella loro forma originaria sono scomparsi, se il suo Palazzo è oggi un museo, se soprattutto Urbino è stato scomposto, diviso e disperso nel mondo c’è pur sempre qualcosa che è rimasto affidato a queste mura, alla rosa di Federico che non potrà sfiorire e cadere. C’è l’eco costante delle sue indicazioni, c’è il libro delle ambizioni che superano il limite del tempo consumato e che è rimasto intatto, come il più nobile segno della ragione, come uno dei più memorabili tentativi di strappare l’uomo alla dissoluzione e alla polvere delle cose. Ciò che il Duca ha amato e costruito non è andato perduto, diciamo ciò che riguarda la forza e la libertà della coscienza. Lo ripetiamo, non solo l’arte, la bellezza dei suoi tesori devono riportarci nel grande silenzio vivo di questa casa.

A casa del Duca avvertiamo che c’è stato e c’è ancora qualcosa di diverso e che di diritto appartiene ai domini misteriosi dell’anima. Quando il vento aggredisce il Palazzo così come quando sembra placarsi e vincere la tensione e il disordine propri della nostra natura nell’ora del tramonto, nel caldo dei meriggi estivi, quando la casa per eccellenza sembra cedere alla tentazione dell’oblio, il discorso del suo inventore continua e basta allora sapere aspettare perché avvenga nuovamente il miracolo e tutto della vita nella sua intera e gelosa essenza si rianimi, si riaccenda e abbia finalmente inizio lo spettacolo che il Duca ci ha lasciato. È allora che il fango e la miseria delle nostre ragioni quotidiane scompaiono e vengono riscattate da un premio, dall’eterna allusione al poco o nulla di noi che intendiamo salvare, ecco perché vivere a Urbino, all’ombra di Federico e del suo Palazzo è una delle occasioni più ricche di sostanza di vita e di memoria.

[L’ampio intervento tenuto da Carlo Bo nella Sala del Trono di Palazzo ducale il 20 giugno 1982, in apertura delle Celebrazioni per il Quinto Centenario della morte di Federico di Montefeltro, viene qui restituito nella sua seconda parte, dove particolarmente emerge la prospettiva metafisica di interpretazione dell’opera del Duca. La prima sede editoriale, come già si segnalava nella lettura che precede, fu quella de “il nuovo Leopardi”, mentre la seconda è compresa in “Parole sulla città dell’anima”, a cura di G. Santini, Collana “I luoghi e la storia”, Comune di Urbino 1997. Qui il brano è stato affidato alla lettura attoriale di Angelo Trezza.]

Voce recitante: Silvia Cuppini – Fotografia: Bob Krieger